La guerra dei metalli rari: il lato oscuro delle tecnologie verdi e digitali

L’uomo del diciannovesimo secolo era perfettamente consapevole di quanto fosse necessario il carbone per alimentare e far prosperare le industrie, spina dorsale della crescita delle grandi potenze e motore del processo che ha portato alla società contemporanea. Allo stesso modo, l’uomo del ventesimo secolo era ed è consapevole dell’importanza del petrolio per continuare a far prosperare quanto prima costruito. Già sul finire dello scorso secolo però, e ancor di più con l’affacciarsi nel nuovo millennio, la consapevolezza della non infinità di queste risorse si è sempre più drammaticamente fatta spazio nella coscienza di chi ne usufruiva; consapevolezza cui si è poi aggiunta la preoccupazione per i cambiamenti climatici causati dai combustibili fossili. Si è arrivati così alla terza rivoluzione energetica, che ha portato tutto il proprio armamentario di pale eoliche, pannelli solari, batterie elettriche… Tutte collegate a reti ultra-performanti, tutte necessitanti di raffinatissime componenti tecnologiche costituite da metalli rari.

Guillaume Pitron, giornalista, autore e documentarista francese specializzato in geopolitica delle materie prime, tratta il tema della vera e propria guerra per ora senza armi che si è combattuta e si sta combattendo in questo momento: “La guerra dei metalli rari. Il lato oscuro della transizione digitale” (Luiss University Press, Roma, 2019) conduce il lettore in un inquietante viaggio attraverso i processi che vanno dall’estrazione all’utilizzo finale di questi metalli, passando per le difficoltà della loro lavorazione, per la pericolosità che hanno per l’ambiente e per le oscure vicende che portano al controllo delle miniere e dei mezzi di lavorazione.

Per comprendere caratteristiche dei metalli rari possiamo usare la metafora degli oli essenziali che si usano nella cosmesi: hanno entrambi proprietà sbalorditive, ma allo stesso modo richiedono tempi di lavorazione lunghi e faticosi, nonché un’enorme quantità di materia prima. Ma se di un’intera arancia solo lo 0,2% della massa va a comporre l’olio essenziale, occorre purificare otto tonnellate e mezzo di rocce per ottenere un chilo di vanadio, sedici tonnellate per un chilo di cerio, cinquanta tonnellate per un chilo di gallio e ben duecento tonnellate di roccia per un solo chilo di lutezio. Ciò dà giusto un’idea della loro “rarità”.

Eppure, questi metalli dai nomi improbabili sono ormai fondamentali per continuare a utilizzare apparecchiature che sono entrate a far parte della vita quotidiana. Anche non leggendo, basta un colpo d’occhio al loro elenco (e ai loro utilizzi) per comprendere quanto spesso li incontriamo nelle nostre vite senza neanche accorgercene:

Antimonio (ritardanti di fiamma, utilizzato come additivo nella plastica e catalisi del polietilene), Berillio (telecomunicazioni ed elettronica, industria aerospaziale, nucleare civile e militare), Bismuto (generatori termoelettrici delle automobili, superconduttori ad alta temperatura, saldature senza piombo), Borato (vetri e ceramiche), Cobalto (cellulari, computer, veicoli ibridi, magneti), Carbone da coke (siderurgia), Fluorite (acido fluoridrico, metallurgia dell’acciaio e dell’alluminio, ceramiche, lenti), Gallio (semiconduttori, lampade a diodi luminescenti), Germanio (fotovoltaico, fibre ottiche, catalisi, lenti infrarossi), Indio (chip elettronici, schermi LCD), Magnesio (leghe di alluminio), Grafite naturale (veicoli elettrici, industria aerospaziale, industria nucleare), Niobio (satelliti, veicoli elettrici, industria nucleare, gioielleria), Silicio metallico (circuiti integrati, pannelli fotovoltaici, isolatori elettrici), Tantalo (condensatori miniaturizzati, superleghe), Tungsteno (strumenti da taglio, schermatura, strumentazione elettronica), Vanadio (acciai speciali, industria spaziale), i metalli del gruppo del Platino usati come condensatori e come materie prime per la bigiotteria (Rutenio, Rodio, Palladio, Osmio, Iridio, Platino). Più tutte le cosiddette terre rare (Lantanio, Cerio, Praseodimio, Neodimio, Promezio, Samario, Europio, Gadolinio, Terbio, Disprosio, Olmio, Erbio, Tulio, Itterbio, Lutezio, Scandio e Ittrio), il cui utilizzo va dai magneti permanenti ai luminofori per schermi, passando per le bande magnetiche anticontraffazione delle banconote, la catalisi, le automobili elettriche, le pale eoliche, i TGV, gli scanner medici, i laser e la trasmissione di dati attraverso fibra ottica. 

Il maggior estrattore minerario e metallurgico al mondo è la Cina. Basti pensare che in Cina si estraggono più del 95% delle Terre rare, più dell’80% di Antimonio, Tungsteno e Bismuto, più del 60% di Grafite, Magnesite e Fluorite, e cifre enormi di ogni altro metallo o minerale elencato nel paragrafo superiore. Una così massiccia attività estrattiva non può che avere ripercussioni estreme sull’inquinamento. I problemi ambientali della Cina sono noti, ma Guillaume Pitron li analizza comunque nello specifico nel suo libro. Riporto un paio di dati per avere un’idea della loro portata: la Cina è diventata il primo Paese per emissioni di gas a effetto serra (28% delle emissioni di CO2 nel mondo nel 2015). Il 10% delle sue terre coltivabili è contaminato da metalli pesanti e l’80% delle acque dei pozzi sotterranei non è adatto al consumo.

L’inquinamento generato dai metalli rari non è circoscritto alla Cina ma riguarda anche altri Paesi produttori ubicati in tutto il mondo, tra cui la Repubblica Democratica del Congo, fondamentale per l’estrazione del cobalto. Citando testualmente: “Secondo studi realizzati da medici congolesi, la concentrazione di cobalto della popolazione residente vicino alle miniere della città di Lubumbashi, nella provincia del Katanga, sarebbe fino a 43 volte superiore alla norma”. L’incapacità dello Stato nel disciplinare l’attività estrattiva non fa che peggiorare di anno in anno la situazione dei fiumi circostanti e la progressiva distruzione dell’ecosistema della regione.

Lo stesso accade in Kazakistan, produttore del 14% del cromo consumato nel mondo, e la cui estrazione è stata riconosciuta come la causa principale del fortissimo inquinamento del Syr Darya, il fiume più lungo dell’Asia centrale. Stando agli studi di un gruppo di ricercatori dell’Università dello Stato meridionale del Kazakistan del 2015 l’acqua è diventata del tutto inadatta al consumo da parte di migliaia di abitanti, e addirittura l’utilizzo per l’irrigazione agraria è fortemente sconsigliato.

Anche in Sud America sono molti i casi emblematici. L’estrazione di oro e argento dalla miniera di Pascua-Lama, a nord di Santiago del Cile, sta comportando lo scioglimento del ghiacciaio soprastante il giacimento. Rimanendo in zona: gli abitanti dei dintorni del Salar del Hombre Muerto, in Argentina, hanno richiamato l’attenzione degli ecologisti per l’inquinamento dei corsi d’acqua causato dalla lavorazione del litio, metallo di cui l’Argentina sta diventando un estrattore primario, tanto da poter arrivare da qui al 2025 a produrne 165.000 tonnellate all’anno, pari a ben il 45% dell’intera domanda mondiale. Per quanto riguarda la situazione in Argentina non si hanno notizie riguardo agli esiti delle proteste, e anzi sembra non essere destinata ad alcuna frenata la corsa degli investitori esteri alle miniere, Iin Cile invece la levata di scudi delle popolazioni locali ha costretto il gruppo minerario Barrick Gold a sospendere le attività nel 2013.

Oltre ad altri preoccupanti casi, Pitron mostra al lettore la pericolosità dell’estrazione e della lavorazione dei metalli rari, l’impatto devastante che ha sull’ambiente il loro consumo e soprattutto i loro scarti, le cifre irrisorie del riciclo dei suddetti materiali. Il tutto con una prosa scorrevole che contribuisce a generare in chi legge consapevolezza maggiore e forse una sana angoscia. L’energia pulita per cui i metalli rari sono necessari rappresenta per molti il futuro del pianeta, ma bisogna conoscerne bene i rischi per far sì che la speranza di un mondo più pulito non si trasformi a sua volta in una ferita lacerante per la Terra.

Paolo Palladino, la disillusione

Crediti fotografici: L’Espresso

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